“VILLAR S. COSTANZO. Alle notizie date dal Casalis intorno a questo comune dobbiamo qui aggiungerne molte, ed importantissime, che furono raccolte dal barone Giuseppe Manuel di s. Giovanni, erudito amatore degli studi sulla patria storia. Vedi Vol XXV, pagina 504 e seguenti.
Villar s. Costanzo giace sulla sinistra del Maira in un seno formato dai contrafforti del monte S.Bernardo, in distanza di dieci miglia, a libeccio, da Saluzzo. Il suo territorio confina a levante con quello di Busca, a mezzodì e ponente con quello di Dronero e di Roccabruna, ed a notte con quello di Venasca per la sommità dei monti che separano la valle di Maira da quella di Varaita. Il vertice del monte s. Bernardo si innalza 1600 metri al disopra del livello del mare e metri 1000 al disopra del piano di Villar: la ossatura del medesimo è formata da diverse gradazioni di gneis, e micascisti attraversati da filoni di quarzo e di feldspato, ai quali se ne trovano anche uniti di perrosido di ferro e di grafite.
Alle falde di questo monte sorgono molti informi pilastri di terra, portanti ciascuno sulla sommità a guisa di capitello uno smisurato sasso: di essi parecchi sono isolati, ed altri in gruppi di due o tre, e ve ne ha i varie dimensioni; alcuni sono elevati dal suolo fino a 10 metri non avendo un diametro maggiore di 2 1,2: il loro numero ascende a poco meno di 300. Veramente strano è lo spettacolo che presentasi allo sguardo di chi trovasi in mezzo ai medesimi. Quei sassi staccati dalle intemperie dal ciglio del monte comprimono siffattamente col loro peso il sottostante terreno sabbioso, che le acque provenienti dai luoghi superiori esportano continuamente la terra che li circonda, fanno sì che quelli rimangono isolati, e poco per volta elevati di molto dal circostante suolo, fino a che roso anch’esso il pilastro cade, ed il pezzo rupe rovesciato a terr, ne fa quivi orgere un altro. Sembra che questo fenomeno non esistesse prima della distruzione delle folte selve che popolavano il monte.
La parte piana del territorio del Villar era altre volte paludosa e malsana, ora però di molto migliorata per le frequenti alluvioni, che ne alzarono notabilmente il suolo. Queste alluvioni cagionate dal diboscamento dei monti, spogliano questi di tutta la terra veetale, lasciando a nudo le vive roccie, e cagionando gravi danni alla pianura colla congerie di sassi, e di ghiaja che vi trascinano. Per questo motivo l’antica chiesa della confraternita rimase quasi coperta da tali materie, e si dovette abbandonare, ed il suolo dinnanzi alla chiesa parrocchiale in pochi anni si alzò di oltre un metro.
Monsignor Della Chiesa parla di oro, di argento, di cristalli e di una miniera di ferro, che sarebbersi trovati ai suoi tempi sui monti di Villar. Recentemente si estrasse da essi galeno e grafite, ed anche particelle d’argento, onde si spera trarre notevole profitto.
La superficie territoriale è di ettari 1900 du cui una metà è coltivata, un sesto è popolato da boschi cedui, ed il rimanente consta di pascoli o di roccie; un canale estratto dal Maira serve ad irrigare la parte piana di questo territorio. Il comune è composto di due frazioni, di cui è detta Villar e l’altra Morra.
Frazione del Villar. Essa è situata dappresso alla montagna, ed è formata da varii casolari staccati. Situata più al piano, ma non lungi da questa frazione, è l’antica chiesa abbaziale, ora parrocchiale, dedicata a s. Pietro in vincoli, a cui sono attinenti li pochi avanzi che rimangono degli edifizi del monastero alienato al tempo del governo francese, e dagli attuali suoi possessori addetti ad usi rurali, a riserva di una piccola parte che venne riservata per abitazione del parroco. A’ tempi in cui esisteva l’abbazia, era questa parrocchia una semplice prepositura dipendente dall’abate ed il cui titolare veniva dal medesimo nominato. Ora essendo il governo succeduto in questa parte dei dritti dell’abate, spetta al medesimo la nomina del parroco.
L’attuale chiesa parrocchiale venne ricostruita sull’antica al principio dello scorso secolo in elegante stile moderno ed ha la forma di croce latina.
Sotto l’iscrizione che sta al di sopra della porta, vedesi l’arma scolpita in marmo dell’abate Giuseppe Ferrero dei signori della Marmora.
Rinchiuse nell’altar maggiore si conservano le reliquie di s. Costanzo e compagni martiri della legione tebea. Sono esse riposte in una cassa di legno, ed un osso dell’avambraccio è in una teca di lamina d’argento. Da antiche memorie si ha che il capo del santo martire venne trasportato a Milano; della spada poi e delle insegne che secondo le medesime si trovavano unite alle reliquie non si conservano più vestigie.
Dalla parte del Vangelo si vede incastrata nel muro una lapide pure di marmo su cui esiste una larga impronta di sangue: è tradizione antichissima constatata da Goffredo Della Chiesa nella sua cronaca che sia stata fatta dal capo reciso di s. Costanzo. Queste reliquie che erano da tempo antichissimo conservata nella chiesa di s. Costanzo, posta sul monte, e di cui in appresso si parlerà, eransi per le vicende a cui andò soggetto questo monastero smarrite, quando nel 1580 vennero, come si narra, miracolosamente rinvenute e quindi per maggior sicurezza trasportate nella chiesa abbaziale.
Essendo questa stata, come si disse, modernamente rifabbricata, poche vestigie rimangono dell’antica costrutta a foggia di basilica: era essa composta di una navata e di due laterali di cui si scorgono ancora le tre absidi circolari sormontata dalle fascie di loggiati che sostengo il tetto di dietro all’attuale chiesa. In alto al dissotto del coro e del presbitero esiste ancora la cripta antichissima le di cui volte in pieno centro sono sostenute da trentasei colonne poligone di svariata forma. Dalla parte anteriore della medesima per un’apertura, ora otturata da macerie, era la comunicazione fra esse e la chiesa di sopra. Queste vestigie che ne rimangono dell’antica chiesa dimostrano che l’architettura delle medesime apparteneva a quello stile che fu in voga dall’ottavo secolo fino al dodicesimo, e venne da molti stile romano e sassone denominato, quantunque come provò l’eruditissimo Hope nella sua storia dell’architettura debba di preferenza chiamarsi lombardo. Alla stessa antica chiesa apparteneva la cappella che si vede ancora annessa all’attuale sacrestia dedicata a s. Giorgio, il martirio del quale in modo originale e sul fare del secolo XV è rappresentato nei dipinti che ne ornavano le pareti. In mezzo alla volta campeggia lo stemma dei Costanzo signori di Costigliole; quivi si vede pure quantunque smosso dal suo luogo il bel mausoleo in marmo dell’abate Giorgio Costanzo morto intorno al 1471; sul quale è la statua del medesimo distesa coi suoi abiti pontificali. Sotto vi si legge un’iscrizione in caratteri semigotici.
Altre iscrizioni nella sacrestia ricordano ai posteri i nomi di altri abati a cui in tempi posteriori andò questa chiesa debitrice della sua conservazione e del suo splendore.
Accanto alla chiesa è l’antico campanile rimarchevole per la sua bella architettura di stile lombardo; l’epoca della sua costruzione ne viene indicata dall’antica iscrizione che a mala pena si legge ancora sul muro esterno ed è la seguente:
Anno dni m.° CCLXXXXIIII
Coepit ist. mo aedificari
Ivi presso era pure il cimitero che venne or sono pochi anni trasportato in sito più lontano all’abitato.
Chiesa di s. Costanzo. Sopra uno sporgente della cost del monte di s. Bernardo fa bella mostra di se, coronata da boschi di castagni, l’antica chiesa di s. Costanzo. E’ questo uno dei più rimarchevoli edifizi di stile lombardo che esista in Piemonte. La facciata giusta l’uso antichissimo ne è volta ad occidente e nulla presenta di particolare; ed entrando per la porta che sta nel mezzo della medesima si trova un atrio a vestibolo, dal quale per scala laterale si ascende alla chiesa mentre un’altra mette alla sottoposta cripta. La chiesa ha forma di basilica composta di una navata con due ale laterali. La parte anteriore della medesima attinente alla facciata è costrutta in semplice muratura; sei pesanti colonne di pietra ne sorreggono gli archi a sesto acuto che dividono la navata dalle ale, e portano il muro su cui poggia il soffitto in legname onde è coperta questa parte della chiesa. Segue a questa l’altra parte costrutta interamente in pietra da taglio avente anch’essa tre arcate, ma cogli archi a pieno centro: sull’arcata di mezzo si eleva l’elegante cupola elittico – ottogona tutta pure in pietra da taglio, rischiarata alla base da quattro aperture o finestre circolari in forma di imbuto. I pilastri in pietra di belle proporzioni che sostengono le arcate e la cupola hanno i capitelli adorni di fregi e rappresentanti animali simbolici. Dietro l’altare era il coro rialzato di due gradini sul pavimento della chiesa tutto pure lastricato in pietra. La chiesa poi è terminata dal lato orientale da tre absidi circolari corrispondenti alla navata ed alle due ale.
Gli stessi compartimenti e la stessa diversità di materiali e di stile, si osservano pure nella sottoposta cripta. La parte anteriore ne è anche essa costrutta in semplice muratura e quantunque non abbia gli archi a sesto acuti, però gli spazi tramedianti della volta sono attraversati da cordoni intersecatisi a X il che denota l’ultimo periodi dell’architettura lombarda. Ma la parte della cripta su cui elevasi la chiesa in pietra da taglio è anch’essa costrutta collo stesso lusso di materiali e non solamente ha gli archi a pieno centro, ma alcuni di questi specialmente nelle ale piegando quasi a forma di ferro di cavallo sembrano accennare allo stile dell’architettura bizantina che precedette la lombarda. Il pavimento della cripta è fatto parte di mattoni, e parte di larghi lastroni o tavole di marmo bianco che servirono di coperchio alle tombe che stanno di sotto e nelle quali sono cadaveri, che furono probabilmente degli abitanti e monaci di questo monastero. Nessuna iscrizione sinora vi si rinvenne, a riserva di qualche pezzo staccato di fregio, il quale sembra anzi indicare che quei marmi facessero già altre volte parte dell’edifizio.
Dalle parti esterne ha la chiesa le tre absidi contornate da un vago ordine di loggiati sorreggenti il tetto. Le colonnette di bianco marmo portano capitelli tutti messi a trafori ed intagli di finissimo lavoro, e sovra gli archetti a pieno centro corre un’elegante cornice pure di marmo.
Rinchiuso fra le pareti dell’ala sinistra si vede il basamento dell’antico campanile, il quale era ancora in piedi a’ tempi non molto lontani. Apparteneva anch’esso all’epoca dell’architettura lombarda, anzi dal modo in cui il suddetto basamento si trova incassato fra i muri della chiesa e più ancora dall’apertura che si vede esservi stata posteriormente praticata per farvi luogo ad un’arcata in pietra da taglio, della parte più vetusta della medesima, rimane evidente essere stato il detto campanile fabbricato anteriormente anche a questa. In prova poi della remota antichità a cui questo doveva ascendere si vede il suddetto basamento coperto ancora da un tetto formato di quelle antichissime e grandi tegole a orli rilevati che erano in uso presso i romani, e che formavano probabilissimamente già lo stesso tetto del campanile. E’ quindi credibile che il detto basamento dati dall’epoca stessa della fondazione di questo monastero, cioè dal secolo VIII come si dirà nella parte storica. Indagando poi le epoche a cui possano riferirsi le due parti che sopra descrivemmo della chiesa, credesi non andar lungi dal vero nell’attribuire la costruzione di quella più sontuosa in pietra da taglio alla regale magnificenza della contessa Adelaide, la quale, come ivi pure si dirà, nel 1091 riedificò il monastero distrutto nel secolo precedente dai saraceni, ed è appunto il secolo XI quello in cui si elevarono i più begli edifizi dello stile lombardo. Sapendo poi come il marchese Manfredo primo di Saluzzo ampliasse anch’egli gli edifizi di questa abbazia nel 1175 non è improbabile che sia stata opera sua la costruzione della parte anteriore e più rozza della chiesa siccome quella che accenna già al decadimento di quel genere di architettura; e d’altronde i mezzi di cui potevano disporre, massime quei primi marchesi di Saluzzo, erano lungi dall’eguagliare quelli che la vastità de’ suoi dominii somministravano alla pietà della summentovata celebre contessa. Ora questa chiesa, venduta cole sue adiacenze dopo la soppressione dell’abbazia al principio del presente secolo, è di proprietà privata della famiglia Marucchi di Dronero. Giudicammo opportuno il darne qui un cenno più esteso per essere dessa nel suo genera uno dei più interessanti monumenti che esistano in questa parte d’Italia e per essere stato sinora sconosciuto da quanti ne presero ad illustrare le antichità.
Poco distante dalla suddetta chiesa di s. Costanzo in mezzo ad un campo si vede una colonnetta che la tradizione vuole indicare il sito preciso in cui ebbe il martirio S.Costanzo.
Chiesa di s. Maria. Quindi volgendo verso Dronero sovra un alto poggio è la chiesa di s. Maria, anch’essa molto antica, patronato della famiglia degli Ursi del Villare. Alla medesima chiesa fu nel secolo scorso per opera di persona devota annesso un ampio fabbricato ad uso di esercizi spirituali.
Castello di Poiin. Finalmente sovra un’eminenza quasi di rimpetto alla detta chiesa alcuni ruderi portano ancora il nome di Castello di Poiin. Probabilmente esisteva ivi un qualche baluardo innalzato a difesa del monastero di s. Costanzo.
Frazione della Morra. Venendo ora all’altra frazione di questo comune chiamata Morra, trovasi dessa precisamente sulla strada che da Dronero tende a Saluzzo: sino al 1760 fu anch’essa soggetta al preposto che per la cura della anime era dall’abbate nominato nella chiesa abbaziale del Villare.
In quell’anno ottennero i suoi abitanti che fosse eretta in parrocchia separata provvedendola di sufficiente dotazione, e riservandosi la nomina del parroco, la quale oggi ancor spetta ai particolari di quel cantone. Posero anche mano alla costruzione della attuale chiesa parrocchiale in luogo della semplice cappella che prima ivi esisteva e condottala a termine nel 1777 la dedicarono a N. D. Assunto in cielo.
Cappelle campestri. Nel territorio di questo comune sì al monte che al piano esistono inoltre molte cappelle campestri, varie delle quali furono erette a’ tempi in cui fioriva il monastero. Merita però special menzione quella dedicata alla Madonna della neve nel cantone di Artesio, nella quale si conservano alcuni curiosi dipinti del 1600.
Notizie storiche. Le interessanti notizie che intorno all’abbazia del Villar si contengono in un’appendice storica aggiunta al volume stampato nel 1782 dell’abate Rambaldo non appaiono confortate da alcuna prova di autenticità, onde crediamo soltanto di dover qui riportare la serie degli abati che secondo il medesimo ressero il monastero avanti il mille, e che asserisce essergli stata comunicata dal celebre Mejranesio:
Anselverto nel 735.
Vitello nel 764.
Amizone nel 846.
Vitelmo nel 850.
Berovaldo nel 853.
Aistulfo prima abate di Pedona pure nel 853. Arperto nel 872.
Benedetto nel 883.
Anselmo nel 890.
Pietro dal 908 al 917.
Guglielmo nel 920.
Ma stando ai principali storici ebbe questo monastero comune sorte cogli altri del Piemonte nell’essere stato nell’anno 906 saccheggiato e devastato dalle orde dei saraceni di Frassinetto, e solo nell’anno 1091 fu regalmente ristorato dalla pietà della contessa Adelaide di Torino. Fu poscia il medesimo nel secolo XII oggetto di nuove donazioni e larghezze per parte dei marchesi di Busca e di Saluzzo, fra le quali precipua fu quella del dominio temporale concesso all’abate sulla terra del Villare. Fu poi anche dai marchesi di Saluzzo eletto a protettore della loro casa e del loro dominio.
Costanzo; onde ne fecero poi incidere l’effigie sulle monete che poscia coniarono. Di questi fu Manfredo primo, il quale nel 1175 ampliò gli edifizi del monastero. Li 25 di giugno dell’anno 1189 l’abate Ottone ottenne decreto dal metropolitano milanese Milone Cardaneo, col quale prendendo questi sotto la sua protezione lo stesso monastero gli impartiva non poche immunità e privilegi. Questo Ottone è il primo abate di cui fa menzione mons. Della Chiesa nella sua serie cronologica di questi abati. Il secondo è Guglielmo che si trova nominato colla data dell’anno 1219. Il terzo è Ardizzone, il quale nell’occasione della visita fatta del monastero l’anno 1264 da Ottone arcivescovo di Milano ottenne dal medesimo agli abati di giudicare delle cause matrimoniali nei paesi all’abbazia soggetti. Questi paesi erano, oltre alla terra stessa del Villare, le parrocchie di s. Daminao e di Pagliero in valle di Maira e quelli di Costiglioe e Villanovetta presso Saluzzo; inoltre dipendevano anche anticamente da questo monastero altri benefizi, come quelli di s. Nazario a Savigliano, di s. Bartolomeo di Caraglio e di Cuneo, di s. Colomba di Centallo e di s. Pietro di Turriglis presso Montemale che erano dai monaci eretti.
Riconoscevano bensì gli abati di questo monastero la supremazia del metropolitano milanese, ma indipendenti si pretendevano dai vescovi di Torino nella cui vasta diocesi ere conglobato il medesimo. Quindi nel 1278 avendo voluto il vescovo Gaufredo visitare il monastero vi si oppose Giacomo che era allora abate, onde il vescovo fulminollo di scomunica con decreto delli 8 marzo di quell’anno. Non è noto qual termine avesse allora la controversia, la quale però suscitassi poi sovente e non fu definita che quando l’esistenza dell’abbazia volgeva già al suo fine. Nel 1285 l’abate Enrico Begiamo faceva varie concessioni ai villaresi per rattenerli dall’abbandonare le loro case per le guerre ed i tumulti a cui erano in preda queste contrade. Nel 1290 lo stesso abate Enrico giudicava come arbitro fra il monastero di s. Pietro di Savigliano e quello di s. Benigno di Frutturia per controversie fra essi insorte. Nel 1294 il monastero di s.
Costanzo è nominato nel testamento del marchese di Saluzzo Tommaso I per un legato di dieci lire viennesi.
Successore all’abate Enrico Begiamo, fu Dragone dei signori di Costigliole nel 1297. Da quest’epoca si ha maggiore copia di documenti per cui minori lacune presenta la storia del monastero e che ci fornirono anche alcuni dati per emendare gli errori sfuggiti ai precedenti storici e più specialmente all’autore del summenzionato appendice.
L’anno 1314 fervendo la guerra fra Manfredo IV marchese di Saluzzo ghibellino e Roberto re di Napoli e conte di Provenza capo di parte Guelfa ebbero il Villare ed il monastero a soffrire gravi danni ed eccidi dall’esercito di questo che in numero di 3000 uomini fra soldati e venturieri cinse d’assedio la piazza di Dronero dal gennaio all’aprile, né essendosene potuti impadronire sfogarono la loro rabbia sulle terre e campagne circostanti per cui i monaci del monastero e gli abitanti del Villare dalle loro case dovettero scampare colla fuga, portando seco le cose più preziose, ed abbandonando il resto all’ingordigia ed alle barbarie dei predatori.
Passata la burrasca, né gli abitanti del Villare per timore di altre simili scorrerie volevano far ritorno ai loro focolari, né il monastero poteva così rimanere in mezzo ad un deserto senza gravissimo danno e come si dice nell’atto, di cui ora si parlerà, cum alias dictum monasterium in lesione perpetua et paupertate maneret. Dopo molte trattative si conchiuse perciò fra l’abate Dragone suddetto e li Ursio Giovanni e Turpino Micheletto delegati dei villaresi li 21 febbraio del 1316 una convenzione le principali disposizioni della quale furono:
1° L’abate a nome del Monastero vendette ai villar esi per la somma di lire cento astesi uno spazio di terreno in prossimità del monastero, entro il quale questi potessero fabbricare le loro case, e che si obbligarono di cingere di forti mura e di fossi ad esempio delle due vicine piazze in Busca e di Dronero. Le dette lire cento astesi corrispondono a circa lire 643 dell’attuale moneta, ed equiparate al valore in quel tempo del formento rappresentano una somme circa di lire 1580 dei tempi presenti.
2° Lo setto abate a nome pure del monastero rinunz iò ai varii dritti che sotto nome di fitti, aconzamento, terze di successioni ed ai canoni e laudesi che venivano al medesimo pagati dai villaresi cedendo quindi a questi il pieno dominio e l’intera disponibilità dei loro beni, ricevendo in cambio la somma annuale fissa di lire ottanta astesi minori che corrispondevano a lire 300 antiche di Piemonte, o 360 delle attuali. Di questa convenzione, alla quale intervennero oltre lo stesso abate li monaci che rimanevano allora nel monastero in numero solo di cinque, si obbligò poi lo stesso abate di ottenerne l’approvazione dalla santa Sede.
Questa convenzione sortì nella massima parte il suo effetto a riserva della costruzione dei muri intorno al nuovo recinto dei quali non rinvenendosi alcuna memoria, né rimanendo alcun vestigio, è probabile che cessati i pericoli delle guerre non curassero più quei terrazzani di innalzare.
Continuava intanto a reggere il monastero l’abate Dragone, il quale godeva in tutte queste contrade di grande autorità e fama di prudenza; onde il suo nome si trova in molti atti di quel tempo, e non solo reggeva il monastero, ma era stato anche nominato amministratore della vicine ed estesa pievania di Dronero. Nella quale duplice carriera continuò fino all’anno 1341 in cui passò di questa vita. Alla vacanza provvide tosto il vescovo di Torino, commettendo la cura di ambedue al monaco Giacomo del Piasco, finchè venne poi eletto a novello abate Bartolomeo dei signori di Costigliole, nipote dell’abate Dragone, il quale resse il monastero sino all’anno 1350.
Per la morte di questi venne nominato all’abbazia Guglielmo Caponi pinerolese priore del monastero di Pagno. Ai suoi tempi la chiesa di s. Costanzo fu oggetto di varie liberalità per parte di Federico II marchese di Saluzzo. Nel 1376 si istituì una cappellania sotto il titolo di s. Croce e sotto il patronato di essi marchesi. Nel 1383 ne eressero un’altra all’altere stesso di s. Costanzo dove si conservavano le reliquie di questo santo cedendo al cappellano alcune decime che gli spettavano nella valle di Maira a cui l’abate Caponi aggiunse une certa annua quantità di grano e vino. Anche di questa cappellania il predetto marchese riservò a se ed ai suoi successori il gius – patronato.
Dopo il Caponi fu verso l’anno 1400 eletto abate Antonio Bigotti dronerese, che si fece venerare per non comune dottrina e santità di vita.
Gli successe Giacomo Armitano, il quale nel 1417 riportava dall’archi vescovo di Milano Capra nuova conferma delle immunità e dei privilegi, dei quali godeva il monastero.
Ebbe poscia l’abbazia Giordano Pagno, al quale nel 1427 gli abitanti del Villare prestavano fedeltà, riportando conferma delle franchigie loro concesse dai precedenti abati. Lo stesso abate nel 1433 veniva a transazione coi signori di Costigliole per le decime di quel luogo e nel 1443 sentenziava come arbitro su di alcune controversie nata fra il comune di Dronero e le monache del monastero di s. Antonio dello stesso luogo.
Ebbe per successore l’abate Giorgio dei signori di Costigliole, terzo di questa illustre famiglia che occupasse tale carica col ultimo abate regolare di questo monastero. Confermò questi nel 1447 le franchigie degli uomini del Villare. Nel 1457 fu delegato del papa Callisto III per operare la riunione del priorato di s. Teofredo di Cervere al monastero di s. Pietro di Savigliano.
Nel 1466 avendo l’abate e gli uomini del Villare ottenuto dal marchese di Saluzzo la facoltà di estrarre un canale d’acqua dal fiume Maira onde irrigare una notevole porzione di quel territorio, con atto delli 18 marzo di quello stesso anno l’abate cedeva in corrispettivo al marchese una porzione dei terreni che venivano così a godere del benefizio d’acqua, e gli abitanti del Villare si obbligavano di pagare allo stesso marchese un canone annuo di cinquanta ducati.
Con altro atto poi delli 19 marzo 1470 si divenne fra lo stesso marchese e i delegati dei comuni del Villare e di Dronero, ad una nuova convenzione, nella quale si stabilì la quota che ciascuno di essi dovesse spettare delle spese per la escavazione e manutenzione del detto canale.
Nello stesso anno 1470 fu dal sommo pontefice Paolo II con lettere delli 13 di agosto commesso all’abate Giorgio il giudizio sulla validità del testamento del vescovo di Mondovì Aymerico Se gaudi, la quale ere impugnata dall’arcivescovo di Torino.
47 Dizion. Geogr. Ec. Vol. XXVIII.
Tale delicatissimo incarico fa vedere quanta considerazione egli gioisse non solo nel suo paese ma anche presso la santa Sede, il che però non vale a giustificare l’errore commesso dal Gallizia nell’annoverarlo fra i santi che vissero in questi stati, errore originato dallo sbaglio occorso nella prima edizione della Storia Cronologica dei mitrati del Piemonte di mons. Agostino Della Chiesa dove riportandosi l’iscrizione posta sul sepolcro di questo abate a luogo di Hic jacet D. Georgius, si pose B. Georgius.
Non è ben certo in qual anno morisse l’abate Giorgio, ma sembra possa assegnarsi all’anno 1471 o 72 trovandosi già, come si vedrà in appresso, memoris del suo successore nell’anno 1475: venne esso tumulato nella chiesa abbaziale del Villare di s. Costanzo nella cappella da esso fondata, dove dal suo fratello Pietro dei signori Costanza di Costigliole gli venne innalzato il mausoleo di cui si parlò nella parte corografica. Oltre alla detta cappella dedicata a s.
Giorgio un’altra pure ne fondò lo stesso abate dedicata a s. Elena nella chiesa di Costigliole sua patria e dipendente pure da questo monastero.
Circa questo tempo deve riferirsi la compilazione degli statuti della comunità del Villare di cui serbasi tuttora negli archivi della medesima il volume originale. Dai medesimi ricavasi quali fossero la natura e le condizioni del reggimento, soggetto come era dessa tanto nello spirituale, quanto nel temporale alla giurisdizione dell’abate. Nel che però non differiva gran fatto dai vicini comuni se non in quanto questi riconoscevano per loro immediato signore il marchese di Saluzzo, mentre il comune del Villare non riconosceva altri che l’abate. La giustizia vi era amministrata da un podestà, nominato dal medesimo ogni anno e che al termine della sua carriera doveva render ragione della sua gestione ai deputati dei villaresi. Le cose del comune erano affidate ai sindaci eletti ogni quattro mesi ed ai consiglieri del comune, la nomina dei quali veniva fatta dai capi di casa, i quali pure radunavansi qualora trattatasi di affari di maggior importanza pel paese.
Del resto tanto nel civile quanto nel criminale gli statuti di questo comune non differivano gran fatto da quelli degli altri comuni del marchese di Saluzzo.
Coll’abate Giorgio come già si accennò, finivano gli abati regolari di questo monastero, essendo questo stato come vari altri in quel torno ridotto in commenda. Primo abate commendatore ne fu Stefano Nardino arcivescovo di Milano quindi cardinale, il quale alli 30 di ottobre dell’anno 1475 per mezzo di Giovanni de Cocomellis viterbiese suo luogotenente fece conferma ai villaresi delle loro antiche franchigie e dei privilegi concessi dai precedenti abati e ne ricevette l’omaggio sotto però la riserva della fedeltà dai comuni dovuta al marchese di Saluzzo. Questa clausola, che qui si presenta la prima volta e che si trova poi ripetuta in tutti gli atti posteriori, ne fa vedere come la giurisdizione dell’abate, la quale come si disse comprendeva già anche la sovranità temporale su questo comune, fosse stata allora ristretta ai soli dritti spirituali ed ai signorili, passata quella nel marchese di Saluzzo; ossia che ciò avvenisse in forza di qualche atto, di cui però non esiste memoria, ossia più probabilmente come conseguenza del decadimento in cui era caduta l’abbazia, il quale porse occasione al marchese di Saluzzo di rioccuparne il temporale dominio.
Lo stesso cardinale Nardino poi alli 22 di gennaio del 1480 concedeva da Roma nuova conferma delle franchigie e dei privilegi dei villaresi aggiungendone anche di nuovi. Morto poi il medesimo, l’anno 1484, rimase alcun tempo l’abbazia vacante probabilmente a cagione dei dissentimenti insorti fra i marchesi di Saluzzo e la s. Sede per la nomina dell’abate. Finalmente nell’anno 1496 fu questi eletto nella persona di Carlo Domenico Saluzzo fratello del marchese Ludovico II già insignito dei titoli di protonotario apostolico e priore di Pagno ed abate di Staffarla.
Fu questi sollecito di farsi prestare dai deputati dei villaresi, perciò espressamente convenuti a Saluzzo, il consueto giuramento di fedeltà, in ricambio del quale oltre alla conferma delle antiche franchigie fece anche loro diverse nuove concessioni, e principalmente che il podestà dovesse venire nominato sopra una rosa di tre soggetti presentati da essi villaresi, che fossero nobili o notai e sudditi del marchese di Saluzzo, e che quanto alle contribuzioni comunali esse dovessero ripartirsi tanto sui beni loro propri quanto su quelli dell’abbazia. Tali concessioni poi si obbligò l’abate di riconfermare non sì tosto avesse riportato dalla santa Sede le bolle d’investitura dell’abbazia.
Finalmente avendo l’anno 1498 ottenuto dal papa Alessandro VI le dette bolle, l’abate Carlo di Saluzzo spedì al Villare il padre Michese de Madeis domenicano suo vicario per prendere legale possesso dell’abbazia e ricevere nello stesso tempo dagli abitanti il giuramento di fedeltà.
Si procedette a questo giuramento in modo solenne il 3 del mese di ottobre del seguente anno 1499, per cui portatosi il suddetto vicario nella chiesa abbaziale colle insegne dell’abate, e circondato dai monaci del monastero che ancora vi erano in numero di quattro, ricevette da tutti gli abitanti ivi convenuti in numero di 253 il giuramento di fedeltà all’abate, sotto la riserva però dell’obbedienza da essi dovuta al marchese di Saluzzo come loro sovrano, contro alla qual riserva protestò il Petrino de Crosa quivi pure intervenuto, quale procuratore speciale dei dritti dell’abate.
Dal numero degli individui che prestarono il detto giuramento, come anche da quello dei capi di casa del Villare che si trovano menzionati nei diversi atti che lo precedettero, si raccoglie come il numero totale della popolazione di questo comune dovesse ascendere in quel tempo dalle 800 alle 900 anime.
Tenne Carlo di Saluzzo quest’abbazia fino circa l’anno 1509 in cui ne fece rinunzia a favore di Giovanni Ludovico di Saluzzo suo nipote. Diffatto trovandosi in un atto del principio di quell’anno nominato ancora il medesimo come abate, si chiarisce aver errato gli autori che assegnarono tal rinunzia al 1507.
Nel 1512 alli 28 ottobre l’abate Giovanni Ludovico suddetto confermava ed approvava sedici nuovi capitoli aggiunti agli statuti di questo comune.
Ritenne poi Giovanni Ludovico quest’abbazia anche dopo aver preso possesso del marchesato di Saluzzo per la morte avvenuta l’anno 1528 del marchese Michele Antonio suo fratello, e nelle vicende a cui andò soggetto sino ad esserne stato spogliato ed imprigionato come avvenne per ordine del Re di Francia l’anno 1531.
Sembra che anche verso lo stesso tempo egli rinunciasse all’abbazia, della quale nel 1541 fu investito il troppo celebre Ludovico Bolleri vescovo eletto di Riez che deturpò il sacro suo carattere colle scelleratezze di un capo di masnada, ed ebbe principale parte nei tristissimi avvenimenti che segnalarono la perdita che fece la casa di Saluzzo dell’avito marchesato.
Miserandi anni correvano allora per queste contrade subalpine, né a minorarne i danni per il monastero di s. Costanzo e per il Villare potevano giovare quelli che ne erano nominati abati commendatori perché contentandosi di perceverne le pingui entrate, di null’altro si curavano, onde perfino i documenti stessi andarono perduti da cui rilevare il tempo che ciascuno di essi tenne l’abbazia. Seguendo perciò la cronologia datane da monsignor Agostino Della Chiesa, fu nel 1546 che lasciò il Bolleri l’abbazia, essendo poi circa il 1550 deceduto non senza grave sospetto di avvelenamento, e nel 1554 ne venne investito prima Aleramo di Saluzzo figlio naturale del marchese Francesco, e quindi Bartolomeo de Piperis saluzzese vescovo di Mondovì. A questi morto in Roma nel 1559 fu surrogato nel 1560 Giovanni Giacomo Biglione monregalese, e finalmente nel 1561 il cardinale Lorenzo Strozzi fiorentino fratello del celebre Pietro Strozzi.
Il cardinale Strozzi rinunziò l’abbazia a favore di Michele Antonio Vacca di Saluzzo, il quale però nuovamente allo stesso Strozzi poscia la rimise. Morì questi nel 1571 e venne quindi eletto abate Antonio Braccio di Firenze, del quale fa menzione monsignor Della Chiesa all’anno 1574 e dopo questi Giovanni Bandino pure di Firenze. Alli 6 di febbraio dell’anno 1587 per mezzo di Bernardo Bonzio suo procuratore addivenne il medesimo col comune del Villare ad un atto di transazione, il quale fu poi confermato con altro delli 24 marzo 1592. Non fu però tranquillo il possesso che ebbe il Bandino dell’abbazia, poiché il papa Sisto V emanò li 18 marzo dell’anno 1586 una bolla, nella quale partendo dalla rinunzia fattane dal cardinale Lorenzo Strozzi a favore del Vacca sopradetto, e considerando come nulla tanto la retrocessione fattane dallo stesso Vacca quanto le successive nomine in abati dal Braccio e del Bandino, investiva dell’abbazia amoto exinde quolibet illecito detentor il Cesare Sonetto rettore della Chiesa di s. Michele di Seggiano in Rimini. Veniva infatti il Sonetto dalla curia arcivescovile di Torino messo in possesso dell’abbazia li 25 maggio 1587, ma non avendo noi più trovato alcun altro atto relativo al medesimo, ed avendo ciò non ostante continuato il Bandino ad avere il reale possesso della badia, fra i cui legittimi abati sono tanto esso quanto il Braccio suo predecessore annoverato da monsignor Della Chiesa, noi riteniamo che sia poi stato il medesimo qual vero e legittimo abate dalla stessa santa Sede riconosciuto. Verso questo tempo cioè alla fine del secolo XVI si riferiscono le ultime memorie dei monaci che fino allora, non ostante che il monastero fosse stato dato in commenda, avevano continuato ad esistervi quantunque a piccolissimo numero ridotti.
Nel 1600 all’abate Giovanni Bandino per rinunzia succedette Ottavio Bandino cardinale e di lui nipote; questi nel 1614 rassegnolla a favore di Ottavio Broglia di Chieri, canonico preposto della metropolitana torinese e famigliare del cardinale Maurizio di Savoja.
Una nuova e più felice èra allora cominciò per questa abbazia, poiché ceduto il marchesato di Saluzzo ai duchi di Savoja e con esso il dritto di nomina degli abati, essendo questi loro soggetti ed avendo la loro residenza in paesi non più tanto discosti, potevano attendere con maggiore sollecitudine al bene della medesima. E ben ne aveva questa d’uopo per la tristissima condizione in cui trovatasi ridotta non meno per le guerre e pestilenze che l’avevano devastata, quanto per l’incuria dei suoi possessori. Gli edifizi del monastero in gran parte rovinati e, come testifica monsignor Della Chiesa testimonio oculare, lo stesso tempio abbaziale ridotto alla sola navata di mezzo essendone cadute le due ali, trovatasi pur ciò non ostante troppo ampio per il diminuito numero della popolazione. Inoltre i beni dell’abbazia disertati ed incolti ed in molte parti usurpati, e finalmente per colmo di sventura anche tra quei pochi villaresi erasi insinuato il mal seme dell’eresia calvinistica che aveva fatto il suo covo principale nella vicina Dronero.
Pose quindi mano il Broglia a rimediare per quanto poteva a tanti mali. Estirpò l’eresia colle predicazioni di zelanti missionari e colle pene ai più ostinati comminate dagli editti ducali. Tutti i beni ed i dritti temporali della badia affittò per 825 scudi d’oro all’anno. Finalmente essendosi nuovamente sotto il suo predecessore suscitate le controversie di giurisdizione che prima erano coi vescovi di Torino e quindi con quelli di Saluzzo, l’abate Broglia convenne con monsignor Viale di lasciar le cose nello stato in cui trovandosi, loro vita durante. Nel regime dell’abbazia ebbe esso come vicario per ben 22 anni Francesco Agostino Della Chiesa poscia vescovo di Saluzzo principi dei patrii storici. Quantunque fosse stato nel 1623 innalzato alla sede vescovile d’Asti ritenne però il Broglia quest’abbazia fino al 1643, nel qual anno rununziolla a favore di Tommaso Francesco Broglia suo nipote.
Questi si occupò più delle questioni di giurisdizione col vescovo di Saluzzo le quali nuovamente suscitò ed intrattenne per tutto il tempo del suo regime, che del bene della sua chiesa e dei suoi sudditi. E tale era la tristissima condizione in cui allora versava questo comune (non diversa però in ciò da quella in cui era tutto il Piemonte), per le esorbitanti contribuzioni impostevi dal Duca e per le angherie ed estorsioni senza numero che a pretesto di quelle che venivano commesse dagli ufficiali ducali, che molti dei suoi abitanti nell’impossibilità di pagarle abbandonavano le loro terre, le quali venivano poi dalla comunità date in goldita o cedute a vilissimo prezzo agli stessi ufficiali ducali o agli usurai a cui era obbligata ricorrere per allontanare l’ultimo esterminio e la totale rovina da cui altrimenti n’era minacciato. Come conseguenza poi necessaria di tale stato di cose la popolazione del Villare trovatasi allora talmente diminuita che, come si raccoglie da un atto delli 28 marzo 1657, giungeva appena alla metà di quella che esisteva alla fine del secolo XV; il che però si deve anche in parte attribuire alla pestilenza che nel 1630 vi aveva esercitata la sua fatale azione.
Al Tommaso Francesco Broglia morto nel 1679 succedette nell’abbazia Giuseppe Ferrero della Marmora biellese, prelato assistente al soglio ponteficio, referendario di ambedue le segnature, e cavaliere a gran croce dei ss. Maurizio e Lazzaro. Ad esso andò debitrice la chiesa del Villare e della ristorazione del suo tempio già tutto rovinoso, come si raccoglie dall’iscrizione riportata nella parte corografica al medesimo allusiva, e della cura con cui ne procurò il vantaggio spirituale con salutati ordinamenti.
Decedette il Ferrero nel 1701 e rimase la badia vacante amministrata da un vicario generale sino all’anno 1728, nel quale si venne nominato Giovanni Pietro Costa di Oulx canonico della cattedrale torinese, confessore prima di Anna d’Orléans moglie di Vittorio Amedeo II, poi dello stesso Carlo Emanuele III. Fu desso grandemente benemerito della badia per averne interamente ristorati gli edifizi cadenti per vetustà e riedificato il tempio principale che dedicò con gran pompa il 2 settembre 1744. Uomo inoltre distinto per non comune scienza e per grande pregio di pietà, provvide anche ai bisogni spirituali della sua chiesa e dei sudditi di essa emanando opportune e saggi disposizioni. E’ morto nel 1760, e gli venne dai suoi colleghi canonici posta negli ipogei della metropolitana torinese un onorificentissimo epitaffio.
Dopo esso ebbero l’abbazia dal 1761 al 1768 fra Enrichetto Natta dei signori del Cerro casalese domenicano, e poscia cardinale, e quindi dal 1770 ai 1773 Giacomo Giuseppe Veglio di Torino, confessore del suddetto re Carlo Emanuele III. Per la morte di quest’ultimo venne poi nel 1778 eletto ad abate Francesco Antonio Rambaldo di Bra, confessore della regina Ferdinanda ed istitutore dei reali infanti. Questi finalmente pose termine alle controversi giurisdizionali col vescovo di Saluzzo, ottenendo per mediazione del re Vittorio Amedeo III dalla sede Pontificia una bolla in data degli 8 gennaio 1780, in virtù della quale fu questa badia dichiarata nullius dioecesis e concessa all’abate autorità quasi vescovile nelle chiese e ne’ territorii dalla medesima dipendenti in una colla facoltà di conferire gli ordini minori.
Nel 1782 poi alli 16, 17 e 18 del mese di settembre tenne l’abate Rambaldo nella chiesa abbaziale del Villare un sinodo, al quale intervennero tutti i benefiziati dell’abbazia, ad otto dei quali vi venne dato il titolo di canonici per rappresentare probabilmente gli antichi monaci, e vi si trovò altresì come invitato il fiore che era allora del clero subalpino sì secolare che regolare. In quel sinodo dopo un’acconcia allocuzione promulgò l’abate vari decreti riguardanti la disciplina ecclesiastica e l’istruzione cristiana del popolo. Mandatolo poi alle stampa in un coi nomi di tutti quelli che vi erano intervenuti, vi aggiunse in fine l’appendice storica citata superiormente.
All’abate Rambaldo morto nel 1790 fu dato per successore il teologo Vittorio Gianotti, il quale fu l’ultimo abate commendatario, essendo stata quest’abbazia insieme con molte altre del Piemonte soppressa dal papa Pio VII colla bolla del 1° giugno 1803, ed il suo territorio unito alla diocesi di Cuneo allora creata; essendone già stata prima li beni dal governo francese come proprietà nazionale venduti. Fu poi alla restaurazione che il villare colle finitime regioni venne alla diocesi di Saluzzo restituito.”
Tratto dal “Dizionario Geografico Storico – Statistico Commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna” compilato dal prof. Goffredo CASALIS –Vol. XXVIII Anno 1856 – Appendice pp. 731 – 749.