"Mi chiamo Giuseppe Belliardi e sono nato il 16/11/1917 a Villar San Costanzo, comune dove risiedo attualmente.
Partii militare il 24/5/1938 e rimasi sotto le armi fino al 1945: sette anni di vita militare, di cui quasi cinque di guerra!
Fui arruolato nel 1° Reggimento Alpini, Battaglione Ceva, e nel 1939 inviato sul confine con la Francia, sopra Tenda, dove costruimmo tante strade militari.
Nel 1940 dovetti partire per il fronte Greco-Albanese e Jugoslavo, dove iniziai a conoscere, insieme ai miei compagni, il tormento del freddo e la continua minaccia del congelamento.
Il 7 luglio 1942 fu la volta della Russia.
Partimmo da Mondovì, con i muli, sulla tradotta. Dopo quindici giorni, scendemmo ad Arnautovo. Di lì a piedi attraversammo la steppa, sotto un caldo soffocante e la polvere, fino a Rossosch e poi Arkangeskoje, dove c'era il deposito delle mine.
Il mio incarico era quello di portare le mine e i viveri, due o tre volte la settimana, fin sul Don, per rifornire i Battaglioni là schierati. Il percorso era di circa 15 Km. Per il trasporto utilizzavamo i cavalli e le slitte. Io avevo un bel cavallo bianco. Quando ritornavo ad Arkangeskoje, avevo le mani intirizzite nei guanti e non riuscivo più a sciogliere le briglie, ma una ragazza russa mi aspettava e mi aiutava sempre.
I Russi erano brava gente. Nei villaggi c'erano i vecchi, le donne e i bambini. Gli uomini erano al fronte.
Italiani e Russi: in realtà non ci comportavamo da nemici, ma ci aiutavamo a vicenda, dando o ricevendo, a seconda delle necessità. Noi all'andata regalammo le nostre gallette e loro ci offrirono, soprattutto durante i patimenti della ritirata, latte caldo e miele e, cosa di vitale importanza, l'ospitalità nelle isbe.
Il Sindaco di Arkangeskoje mi invitò perfino a nozze del figlio. Come regalo di nozze portai mezzo sacco di riso, così il menu del pranzo nuziale fu riso al latte, riso con la conserva, maialino al forno (è una loro specialità) e torta di riso.
Da parte mia cercavo di fare tutto il possibile per aiutare quella povera gente. Dal momento che avevo fatto il corso per infermieri, mi prestavo per le iniezioni e mi procuravo, tramite l'ospedale da campo, i farmaci d'emergenza.
Grazie alle iniezioni, riuscii a salvare la vita di una donna, però, recatomi nella sua isba per farle l'ultima puntura, mi trovai davanti tre uomini in borghese, armati fino ai denti: erano partigiani russi. Io, che ero disarmato, ebbi un soprassalto, ma uno di loro si fece avanti e mi disse di non avere paura. Era il capo del partigiani russi ed era venuto lì ad aspettarmi per ringraziarmi: quella donna era sua madre.
Mi promise pure aiuto, un nascondiglio se fosse stato necessario o un trattamento speciale in caso di prigionia.
Come potete ben capire, neppure i partigiani russi fecero del male a me e ai miei uomini: ero caporale maggiore di una squadra di 48 Alpini, aggregati al 32° Battaglione Guastatori.
Verso la metà del gennaio '43, si capì che qualcosa di grave stava per accadere. La Divisione Cuneense aveva l'ordine di puntare su Valoujki, dove avrebbe trovato rinforzi tedeschi (così si diceva, ma i rinforzi non si trovarono mai).1 Noi, nel disordine della prima ritirata, ci accodammo alla Tridentina, che puntava su Nikolajewka.
Sul campanile della chiesa di Nikolajewka i partigiani russi avevano appostato due mitragliatrici e facevano fuoco, man mano che vedevano le truppe avvicinarsi.
Essendo giunti all'imbrunire in prossimità del villaggio, ebbi l'ordine dal Generale Reverberi, Generale della Tridentina, di andare a perlustrare se le mitragliatrici fossero ancora in funzione.
Accettai coraggiosamente. Con gli sci ai piedi (avevo fatto il corso per sciatori e sciavo con sicurezza), tenendomi al riparo della riva, riuscii a perlustrare la zona e a constatare che le mitragliatrici erano state disarmate dagli Alpini che ci avevano preceduti.
Ritornai al Comando per riferire.
Allora decidemmo di attaccare. Ci lanciammo verso il villaggio con la furia di un branco di belve, brandendo le armi e, chi non le aveva, i tridenti, i bastoni o le forche. Sorpresi dalla nostra furia animalesca, i partigiani del villaggio scapparono e noi potemmo entrare in paese per riscaldarci nelle case, rifocillarci un po' e concederci qualche ora di sonno.
Avevamo già superato tanti ostacoli, attacchi, battaglie ed ora eravamo usciti dalla sacca, ma il cammino della ritirata era ancora lungo.
Avevo capito che era assolutamente necessario partire presto al mattino, perché i partigiani a quell'ora dormivano ancora. Intanto dei 48 uomini della mia squadra, eravamo rimasti in due: io e un caro compagno di Carrù, Bernardo Bailo.
Facemmo insieme tutta la ritirata. Un giorno, avendo mangiato dei cetrioli, mi sentii molto male. Un malessere generale mi impediva di proseguire. Allo stremo delle forze, cedetti alla tentazione di fermarmi lungo la pista, dove giacevano tanti compagni catturati dalla "morte bianca". Bernardo mi supplicò di farmi forza, ma io non ce la facevo e allora lo esortai con queste parole:
-Tu vai, lasciami qui e, se tornerai in Patria, promettimi di andare dai miei e di dire loro che sono morto con rassegnazione.
Il compagno mi lasciò, ma di tanto in tanto si voltava indietro a guardarmi. Anch'io lo seguivo con lo sguardo, quando era ormai lontano.
Allora mi venne in mente di dire almeno due preghiere prima di morire. Recitai con fede tre Ave Maria ed invocai il nome di Santa Maria Delibera e di San Costanzo. Un tremito mi percorse dai piedi fino alla testa ed un'inspiegabile energia animò le mie membra. Mi alzai e con la mano feci cenno al mio compagno di aspettarmi. Quasi di corsa lo raggiunsi e chiedemmo ospitalità al primo villaggio, dove una donna ci offrì latte caldo e miele.
Io sono credente e per me la fede è importante; riguardo a questo fatto lascio a voi giudicare.
Vi ricordate del mio cavallo bianco? Ebbene un mattino non riuscì più a rizzarsi in piedi sulle zampe posteriori: puntava le anteriori, ma si lasciava cadere da quelle dietro.
Che fare? Noi avevamo assoluto bisogno di un cavallo per proseguire. Era l'una dopo mezzanotte.
Adocchiammo tre cavalli tedeschi legati con la cavezza alle sbarre di una finestra e ben riparati dal telo.
Con rapida manovra, tagliai la corda al primo e lo spronai a partire.
Il cavallo lanciò un nitrito e un Tedesco, poco dopo, saltò fuori dall'isba, sparò a più riprese, ma non riuscì a colpirci perché il mio compagno ed io, distesi sulla slitta, e col cavallo ormai al galoppo, non sentimmo altro che il sibilo delle pallottole.
Come vedete, ci si doveva aggiustare, per forza!
Vi racconto ancora come facevo ad acchiappare le galline. Lanciavo qualche chicco sull'aia e la gallina accorreva a beccare. Poi lanciavo altri chicchi ancora, sempre più vicino, sempre più vicino e la gallina…confidando nella generosità dell'ignoto passante, mi si avvicinava sempre più, finché ZAC,…la acchiappavo!
Passarono i giorni di marcia e finalmente raggiungemmo Gomel. Da Gomel a Budapest viaggiammo in treno, da Budapest a Gorizia, per la contumacia, ancora in treno.
Arrivai a casa il 25 aprile '43, ma mi aspettava ancora il lager in Germania, dopo l'8 settembre."
Villar San Costanzo, 23 aprile 2002