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Campagna di Russia
Una valigia racconta

"Ciao! Io sono la valigia di un soldato chiamato Dino. Questi faceva l'autiere presso la caserma di Acqui Terme e portava sul suo camion munizioni e viveri.
Ho la forma di un parallelepipedo; i miei angoli sono fissati da borchie.
La mia serratura non può più essere utilizzata perché si è smarrita la chiave. La maniglia è di cuoio resistente, ma ormai sgualcito.
Un giorno, mentre il mio padrone viaggiava, al mio interno successe una cosa gravissima: si rovesciò l'inchiostro, lasciando due macchie ancora oggi ben visibili.
Durante la permanenza in Russia, contenevo tutti gli oggetti privati e le foto del mio padrone, tanto che lui diceva che dentro di me c'era"tutto Dronero".
Un giorno ci fu un bombardamento nella nostra zona, il mio padrone si mise sotto il camion e, non avendo avuto il tempo di tirare il freno a mano, il camion andò avanti. Il mio padrone rimase allo scoperto, ma fortunatamente non venne colpito. Ho già sessant'anni e alla mia età non pensavo più di capitare in una classe di ragazzi per essere fotografata e descritta."

Nicolò T. - Mattia - Patrick - Simone P.

"Ciao! Io sono una valigia che ha fatto il giro dell'Europa orientale con il mio padrone.
Il mio padrone era un soldato autiere di nome Dino.
La mia forma è un perfetto parallelepipedo in legno, che ha per ogni angolo e per ogni lato delle borchie in ferro; la mia maniglia è di cuoio, ormai consumato, ed è attaccata alla valigia mediante dei ganci di metallo arrugginito. La serratura è in ottone, ma la chiave, che mi apriva e che mi chiudeva, si è smarrita. Nonostante ciò, ho ancora la forza di sigillarmi. Al mio interno, probabilmente, erano posti gli oggetti personali, i documenti e il necessario per scrivere le lettere. Una delle cose essenziali era il calamaio che, purtroppo, si rovesciò durante la ritirata. Il mio padrone rimase molto dispiaciuto di quell'incidente, visto che oramai si era affezionato a me. Dino mi poneva al sicuro, sotto il sedile del camion.
Finalmente, dopo quella terribile esperienza tornai in Patria col mio fedele autiere che è poi morto nel 1996.
Adesso riposo tranquilla in una soffitta a Dronero. L'unico ricordo che mi rimane di Dino è una vecchia lettera inviata ai suoi cari."

Arianna - Michelangelo - Chiara - Alice

"Buon giorno a tutti! Sono una simpatica valigetta. Ho più si sessant'anni, ma ho ancora l'aspetto giovane! Sono di legno e ho la forma di un parallelepipedo. I miei angoli sono fissati da alcune borchie. Su uno dei miei lati è saldata una serratura di ottone, dove, quando ero giovane, veniva infilata la chiave per chiudermi. Io mio "corpo" è solcato da qualche "ruga" e la mia maniglia di pelle è ormai consumata.
Il mio padrone conservava al mio interno i suoi ricordi più cari, inoltre, racchiudevo oggetti personali: il pettine, lo spazzolino, il dentifricio, la lametta per la barba e la brillantina; anche la carta da lettera e l'inchiostro erano presenti: ancora adesso si può scorgere, sul mio fondo di legno, una grande macchia blu. Evidentemente si era rovesciato il calamaio.
Sono una grande viaggiatrice, infatti ho girato il mondo. Sono andata in Russia, sul Don, dove ho combattuto, a fianco del mio padrone, la seconda Guerra Mondiale. Dino, il mio padrone, ed io eravamo inseparabili; egli faceva l'autiere, mentre io me ne stavo sotto il sedile. Per questo sono ritornata in Patria: non mi ha mai lasciata.
Sfortunatamente, però, il mio amico Dino se n'è andato nel 1996.
Da quell'anno vivo in un a soffitta, sola soletta, ma in questi ultimi tempi, sto vivendo un'allegra avventura fra i banchi della scuola elementare di Villar San Costanzo."

Gianfranco - Ivo - Simone G. - Roberta - Elena

"Sono la valigia di un soldato autiere, di nome Dino, che era in servizio nella caserma di Acqui Terme.
Il mio padrone ed io abbiamo attraversato l'Europa orientale, sopportando il freddo della steppa russa.
Io riposavo sotto il sedile del camion. Anche essendo in camion, il nostro nemico freddo filtrava tra le fessure.
Sono una valigia ben conservata e ho più di sessant'anni, non li dimostro, vero? Ho la forma di un parallelepipedo di legno. Sono fissata ai lati e agli angoli con delle borchie di ferro. Ho una serratura di ottone, la cui chiave è andata persa, ma anche senza chiave riesco a chiudermi con un piccolo uncino che si infila nel legno. Per trasportarmi il mio padrone mi teneva attraverso una maniglia di cuoio.
Il mio compito era quello di trasportare lettere, foto e il calamaio con il pennino per scrivere ai cari del mio padrone.
Durante la ritirata, l'inchiostro contenuto nel calamaio si rovesciò e lasciò due macchie ben visibili tuttora.
Oggigiorno la moglie del mio padrone mi conserva con affetto, nella soffitta di casa sua, in ricordo del mio caro padrone.
Non mi sarei mai immaginata, dopo sessant'anni, di trovarmi in una classe di ragazzi dove tutti mi ammirano e mi descrivono molto bene."

Elisa - Alessio - Nicolò C. - Sara



Mulino a vento

In una sconosciuta cittadina della Russia, c'era un mulino, forse abbandonato; era una costruzione completamente in legno.
Le pale erano consumate dal vento della steppa e una era addirittura sfasciata.
Il tetto si presentava ancora integro, con le assicelle ben allineate.
All'interno giacevano dei sacchi di grano, visibili grazie ad una finestra aperta.
La porta era rudimentale: aveva due sbarre per serratura.
La costruzione era sollevata dal suolo tramite pietre e assi di legno.
Poco più in là, c'era un pozzo mezzo diroccato.
Purtroppo all'interno, una spessa lastra di ghiaccio ricopriva l'acqua.
Alla carrucola era arrotolata una corda, legata strettamente ad un secchio usato per estrarre l'acqua dal fondo del pozzo.
Attorno a quest'ultimo, c'era un'insenatura che serviva senz'altro da scolo per le perdite d'acqua.
Queste due strutture dall'aspetto abbandonato, forse nella bella stagione potevano essere utilizzabili.

Alessio - Simone G. - Nicolò C. - Simone P. - Ivo



Le isbe

Le isbe sono casette con muri di fango e tetti di paglia; si trovano in Russia, isolate o in piccoli gruppi, sperdute nella monotona steppa.
Queste dimore sono semplici, ma molto accoglienti per i soldati italiani che cercano un rifugio sicuro in tempo di guerra.
Le persiane e la porta sono di legno e la base di fango. Le isbe all'interno hanno un unico vano, cioè una grande stanza; al centro c'è un'enorme stufa, perennemente accesa, che manda calore e conforto.
I ceppi infuocati lanciano in tutta la stanza bagliori rassicuranti, non sinistri, e diffondono nell'ambiente un profumo di foresta.
La famiglia è riunita vicino alla stufa; la mamma racconta ai figli delle storie per augurare la "buona notte". I più piccoli se ne stanno, ormai addormentati, nelle culle di legno, costruite dai loro papà.
Le isbe possiedono quasi sempre un cancelletto che conduce, attraverso una scala, nella buia cantina.
A fianco della linda casetta, si trova spesso una costruzione modesta, più simile ad una stalla.
All'esterno, l'isba non ha recinto, ma l'immensa steppa battuta dal vento gelido dell'inverno russo.

Chiara - Arianna - Nicolò T. - Sara

Altre informazioni sulle isbe:



Riconoscimenti

vedi le immagini allegate


Gilda Perano

TESTIMONIANZA della Signora Gilda PERANO di Dronero, sorella di Michele e Chiaffredo PERANO, alpini di Villar San Costanzo, caduti in Russia; futura moglie del reduce Giuseppe Viano.

Può raccontarci qualche episodio che lei ricorda, riguardo ai suoi fratelli?
-Parliamo della partenza, che è l'inizio di tutte le grandi sofferenze dei nostri soldati.
Io ricordo in particolare la partenza di mio fratello Michele, avvenuta ai primi di luglio del 1942, a Busca.
Io ero giovinetta, 16 anni, ricordo che con la bicicletta, perché non c'erano altri mezzi, andai, come di dovere, a salutare mio fratello, in partenza alla stazione. Non posso con le parole spiegare quello che provai, l'emozione, a vedere quella tradotta carica di soldati: la gente, mamme, sorelle, ragazze che salutavano i giovani soldati in partenza. C'era tanta, tanta commozione.
E, quando furono tutti sulla tradotta, mi ricordo come in un sogno, lo vedo, era come un presagio…il cuore era stretto perché si capiva che andavano incontro a qualcosa di terribile. E loro erano allegri, ma non era un'allegria: gridavano, parlavano, salutavano, sembrava che fossero allegri, ma non era vero.
Poi, finiti i saluti, quando già tutti erano sui vagoni, ad un certo punto, mentre già la tradotta incominciava a muoversi, scese sulla pedana del treno un soldato, che io ho poi riconosciuto, (si chiamava Secondo Lombardo, di Dronero, che cantava molto molto bene, anzi cantava alla RAI di Torino) e iniziò a cantare la canzone "Mamma"; tutti stettero zitti e…vi lascio immaginare la commozione che ci fu lì tra tutti: i soldati piangevano, i civili piangevano, le mamme, i fratelli, le sorelle che erano andati a salutare i loro cari.
E' proprio una cosa che non dimenticherò mai…mai…perché c'era tanto, tanto dolore.

Riguardo a suo fratello Chiaffredo, anche lui morto in Russia, che cosa può dirci?
- Riguardo a mio fratello Chiaffredo posso dire poco, perché lui si trovava a Borgo San Dalmazzo e, purtroppo, non abbiamo saputo l'orario, il giorno della partenza, perché sono partiti improvvisamente. Poi, bisogna tenere conto che da Villar a Borgo non c'erano comodità ed anche avendolo saputo due ore prima, non si poteva più partire con la bicicletta, automobili non ne avevamo. Perciò, purtroppo, poverino, non ha avuto nessuno che l'abbia salutato alla stazione di Borgo e questa è una cosa che mi è sempre rimasta dentro, quel rammarico, perché avrei voluto anch'io salutarlo alla partenza, ma non è stato possibile.

Sappiamo, Signora Gilda, che anche suo marito ha vissuto la Campagna di Russia; allora non eravate ancora sposati, cosa ricorda della partenza e che cosa suo marito le ha raccontato riguardo a questa guerra?
-Mio marito, Viano Giuseppe, classe 1919, faceva parte del 2° Battaglione Alpini Dronero, si trovava alla caserma di Cuneo e partiva anche quel giorno: mio fratello Michele partiva da Busca, al mattino, e lui partiva verso sera, di quel medesimo giorno.
Allora io pensai un po' e poi dissi : "Mah io quasi quasi vado a passare da Cuneo, faccio Cuneo -Dronero e lo vado a salutare".
E difatti inforcai la mia bicicletta e, facendo Busca - San Chiaffredo, arrivai a Cuneo e andai a cercare il mio futuro marito in caserma. Lo trovai subito e lui rimase molto molto contento di vedermi. Io gli dissi: "Guarda Beppe, sono venuta a salutarti; mi trovavo a Busca ed ho pensato di passare di qua".
Parlammo un po', poi lui mi disse: "Avrei piacere di accompagnarti verso casa, vedo se riesco a farmi prestare una bici". Presa in prestito la bici, mi accompagnò su, fino alla Confreria di Cuneo e lì ci salutammo.
Sempre, durante tutta la Campagna di Russia, ci tenemmo in relazione, ci scrivevamo, finchè, nella primavera del '43, verso aprile, lui ritornò in Patria ferito…
Come era stato ferito? Si trovava in Russia dal mese di luglio del '42; lui era radio-telegrafista e un giorno, precisamente il 19 dicembre '42, insieme ad un suo amico, Renzo Bongiovanni di Pianfei, venne mandato, loro due soli, in servizio al Caposaldo Pisello; dovevano andare lì perché c'era un forte conflitto, una battaglia che vedeva impegnate la Julia e la Cosseria, Divisioni eliminate in Russia, e loro due dovevano portare delle radio-trasmittenti.
Arrivarono sul posto che erano circa le 15 e un quarto, 15 e mezza, mi raccontava con tanta commozione mio marito, alle volte non riusciva più a raccontare, ad andare avanti. Ebbene, verso le 15,30, scoppiò una forte battaglia, colpi di Katiuscia; sfortunatamente un colpo lo prese e rimase ferito alle gambe: aveva 112 schegge nelle gambe, mio marito. Svenne sulla neve.
Mi raccontava che, al risveglio, si trovò con questo suo amico vicino. Loro erano molto legati. Questo Renzo voleva bene a mio marito, come ad un fratello. Renzo scaricò la slitta che avevano adoperato per portare le radio e, facendo animo a mio marito, lo caricò. Ma mio marito gli disse: "Guarda Renzo, lascia stare, perché vedi che qua è l'inferno, vai via tu che puoi camminare, lasciami qua". E Renzo gli rispose: "No Beppe, o tutti e due, o nessuno".
E cominciò a tirare la slitta, però con tanta difficoltà perché c'erano morti e feriti per terra, lungo la pista. Aveva 5 Km da fare per arrivare al Campo e, durante quel tragitto, tanti poveri ragazzi cercavano di attaccarsi alla slitta e dicevano: "Porta anche me… porta anche me…"
Raccontava mio marito di un orrore, una cosa che non si può descrivere, non si può raccontare. Diceva che chi non l'ha visto non può pensare che ci sia stata una cosa così atroce.
Renzo non era stato ferito nel corpo, aveva solo un po' il braccio graffiato.
Comunque, dalle 15,30, arrivarono alle 18 giù al Campo e mio marito, che era ferito grave, venne caricato sulla tradotta, l'ultima tradotta che partì dalla Russia, l'ultima tradotta…poi le tradotte non poterono più transitare in territorio russo.
Renzo, poverino, aveva sì le mani insanguinate per aver tirato la slitta, ma non era ferito; lo portarono in infermeria per la medicazione, e gli dissero: "Lui parte, va via, ma tu devi stare qua perché non sei ferito".
Mio marito fu portato in un ospedale tedesco, in Germania, e lì rimase fino al rimpatrio, a febbraio, quando raggiunse Milano e fece poi ritorno a casa, verso maggio.
E Renzo? Di lui non si seppe mai più nulla, come dei miei fratelli, disperso…
Ma…bisognava sentire raccontare loro. Mio marito, quando raccontava, diceva che era stata una cosa indescrivibile e, tutti gli anni, alla ricorrenza del 19 dicembre, lui quel giorno non andava a lavorare, era d'inverno, stava qua,si sedeva lì, in punta alla tavola e ricordava… tutti gli anni, alle 15 – 15,30, l'ho visto tante volte piangere… Diceva che a quell'ora, laggiù in Russia, incominciava già a fare buio e lui diceva "grazie" a quel ragazzo, Renzo di Pianfei, di cui nessuno seppe mai più nulla.

Dronero, 15 aprile 2002



Giuseppe Biglione

TESTIMONIANZA del reduce Giuseppe BIGLIONE,  raccontata dal figlio Giovanni (Sindaco di Villar S. C.)

"Mio padre è nato il 5 agosto 1919 a Villar San Costanzo. Giovanissimo, ad appena quattro anni, perse la mamma e , poco dopo, il papà. Quindi, è stato cresciuto dallo zio che era vedovo.

Mio padre era contadino: nel 1935 e 1936 era "affittato" presso la famiglia Martinasso di Morra. Successivamente fu a servizio presso la famiglia Ramonda Bernardo della frazione di Bosco di Busca. Di lì partì militare il 4 febbraio del 1940. Fu assegnato al Terzo Reggimento Artiglieria di Divisione "Celere", gruppo a cavallo, con l'incarico di "Servente al pezzo" (Rifornitore di proiettili).

E' stato mandato in guerra il 15 luglio 1940 in Jugoslavia. Al passaggio del confine il principe Umberto, appassionato di cavalli , consegnava uno scudo ad ogni soldato.

In Jugoslavia apparve subito chiara la crudeltà dei Tedeschi . Un giorno, entrati in una piccola città, videro ad ogni albero civili impiccati senza alcuna pietà.

Dalla Jugoslavia, rientrato in Italia, è stato subito inviato in Russia.

Il 12 luglio 1941, partì da Milano: il carico di ogni vagone era o di quaranta uomini o di otto cavalli.

Erano armati di cannoni del tipo 105.

E' stato artigliere in posizione sul fiume Don fino al 13 gennaio 1943, quando fu rimpatriato dalla Russia per avvicendamento.

Inutile dire che si è saputo dopo che, in quelle settimane, l'accerchiamento delle divisioni italiane del cosiddetto CSIR era già in atto da parte delle truppe sovietiche.

Mio padre era solito raccontare alcuni episodi o alcuni comportamenti abituali che lo avevano colpito, in particolare la raccomandazione dei fanti (che erano in prima linea) di "tirare alto" per non colpirli invece dei soldati russi.

Durante una battaglia dovettero sparare ad "alzo zero", con otto cavalli attaccati ai cannoni. Arretravano di duecento metri per volta. I cavalli erano così abituati allo sparo dei cannoni che non si muovevano neppure.

Nelle giornate di calma, il Don si vedeva scorrere a duecento metri di distanza, quello stesso Don che, in inverno, avrebbe permesso ai carri armati russi il passaggio sul ghiaccio, diventando uno dei principali nemici.

Il grosso impegno per la sua mansione era finalizzato a mantenere i cavalli che provenivano in parte dalla "leva", cioè da quel contingente di animali che era di proprietà dei cittadini ed era requisito dall'esercito. Particolare cura era riservata ai cavalli ed ai muli, maggiore che non ai soldati.

Tra i militari si stringevano rapporti di amicizia, rapporti familiari e di vero e proprio affetto: mio padre era soprattutto affezionato ad un ufficiale, un capitano, che faceva normalmente dei concorsi ippici e lo voleva con sé a curare i cavalli.

Gli schieramenti erano una divisione italiana e una divisione tedesca alternate; in un certo periodo anche l' artiglieria italiana fu di appoggio alla fanteria tedesca e viceversa. I Tedeschi non si fidavano per nulla degli Italiani.

Ricordava che era stato incaricato dai suoi superiori di segnalare il percorso per una colonna di autocarri; a un certo punto la colonna si perse ed egli rimase da solo per più ore. Fortunatamente un autocarro tedesco andò in avaria e, in attesa della riparazione, i soldati tedeschi dovettero fermarsi al bivio dove egli si trovava; brindarono con lui, gli diedero del cioccolato mentre, poco dopo, arrivava un portaordini del Comando divisione per riprenderlo.

Gli artiglieri italiani erano molto orgogliosi di appartenere a questo reggimento che si chiamava anche "Voloire", finché si accorsero che, a causa delle loro mostrine nere, venivano scambiati per fascisti e, perciò, passati per le armi dai Russi, anziché fatti prigionieri di guerra.

Raccontava che, prima di lasciar cadere in mano ai Russi i rifornimenti, si bruciavano.

Ricordava ancora con stupore l'incendio che illuminava una notte: i bidoni di benzina saltavano in aria, anche a cento metri.

Rientrò in Italia il 9 febbraio del 1943, a Vipiteno, dopo un viaggio sul treno di sedici giorni. Aveva notato che ogni due ore si dovevano lasciare i binari liberi per ventidue ore per permettere l'invio dei rifornimenti al fronte; la cosa appariva strana e solo dopo, riuscirono a comprenderne il motivo.

A Vipiteno fu aggregato al campo contumaciale per quindici giorni. Dopo fu mandato in licenza di avvicendamento per altri quindici giorni più il viaggio.

Giunse a Villar il 13 aprile del 1943. Il 30 aprile del 1943 ripartì per Milano dove rimase fino all'8 settembre dello stesso anno

Dopo un fortunoso viaggio, arrivato a Castelletto di Busca, sul treno, un controllore gli chiese il biglietto. Non avendo altro, gli mostrò un fazzoletto militare e questi tacque."

Villar San Costanzo, 7 maggio 2002
 



Giuseppe Olivero

TESTIMONIANZA del reduce Giuseppe OLIVERO ("Notu")

"Mi chiamo Giuseppe Olivero e sono della classe 1919.
Sono nativo di San Damiano Macra, ma dal 1991 risiedo a Villar San Costanzo.
Ero arruolato nel 2° Battaglione Alpini Dronero - 17^ Compagnia - .

Nel 1940 fui mandato sul confine con la Francia e nel 1941 sul fronte Greco-Albanese.
Ero conducente di muli, con l'incarico di trasportare viveri e munizioni. Rimasi per cinque mesi in Albania: furono mesi di pioggia, fango, umidità.
Dormivamo su giacigli di rami e ci rivestivamo al mattino con gli abiti ancora umidi, stesi la sera precedente sulla baionetta.
Consumai in quei mesi ben quattro paia di scarponi!

Al ritorno in Italia fui trasferito, nell'estate 1942, nella caserma di San Rocco Castagnaretta, sempre con l'incarico di conducente di muli, per lo spostamento della Sessione Sanità.
Il 28 luglio 1942 fu il giorno della partenza per la Russia. Partimmo dalla stazione di Cuneo, sulla tradotta, con 42 Alpini per vagone. Su una tradotta a parte ci seguivano i muli.

Sul treno c'era la cucina e come rancio si stava abbastanza bene.
Terminata la linea ferroviaria, iniziò la marcia a piedi. Camminavamo tutto il giorno; faceva molto molto caldo. Di sera montavamo le tende e consumavamo la cena: le cucine da campo ci avevano preceduti fin dal mattino e il rancio era pronto. Poi ci sistemavamo per la notte, in quattro o cinque per ogni tenda.

Arrivati a qualche km dal Don, noi conducenti ricevemmo l'ordine di accampare a quella distanza, mentre il resto del battaglione fu mandato verso il fronte. Tutte le mattine noi conducenti di muli portavamo i viveri agli Alpini, sulla linea del Don.

Vedevamo bene le mitraglie dei Russi appostate sull'altra riva del grande fiume, ma i Russi aspettavano il momento propizio per metterle in funzione.

Purtroppo il momento propizio venne: quando il Don, a metà gennaio, ebbe uno spesso strato di ghiaccio, i Russi lo attraversarono con le armi pesanti e attaccarono la nostra linea.

Fu la disperazione per i nostri soldati: si salvi chi può!

A centinaia caddero sotto il fuoco delle mitraglie e altrettanti perirono sotto la morsa del freddo che raggiungeva i –40, -45 !

Ovunque si vedevano corpi abbracciati, ancora perfettamente in piedi, anneriti, stretti nel gelo della morte.

Il 16 gennaio 1943, il 9° Genio Alpini, al quale eravamo aggregati, caricò gli Alpini sui camion per portarli fuori dalla sacca.

Erano le due dopo mezzogiorno. Sfortunatamente io mi trovavo con due miei compagni in un'isba per far cuocere della carne, così fummo "dimenticati".

Cosa potevamo fare? Non ci restava che incamminarci a piedi.

Questa fu la nostra ritirata: tutta a piedi, per 37 lunghi giorni!

Durante quei giorni vidi tante scene di dolore e di disperazione. Per quanto mi fu possibile, diedi aiuto trainando qualche compagno sulla slitta o spronando energicamente chi stava per cedere alla stanchezza e allo scoraggiamento.

Fortunatamente non avevo parti del corpo congelate; solo i due alluci avevano un inizio di congelamento,ma senza gravi conseguenze.

Cucivamo insieme pezzi di coperte da campo per avvolgere i nostri piedi e difenderli dal gelo.

Gli scarponi, che comprimevano il piede e non lo riparavano abbastanza, li portavamo a tracolla!

Durante la marcia, la classica "nuvoletta" di condensazione del vapore acqueo, davanti alla bocca, diventava presto un lungo ghiacciolo che dovevamo rimuovere con le mani.

Una sera, sfinito, trovai ospitalità in casa di brava gente russa, ma data la mia stanchezza, mi risvegliai a mezzogiorno del giorno dopo.

I miei compagni erano tutti partiti e non mi rimase che marciare tutto il giorno da solo, seguendo la traccia lasciata sulla neve dalla truppa.

Alla sera li raggiunsi e potei mangiare, come i miei compagni, tre patate cotte in un recipiente arrugginito.

Per un certo periodo, sbandammo, seguendo le esortazioni di volantini americani lanciati dagli aerei, ma un sergente controllò i nostri documenti e ci rispedì al Comando.

Durante lo sbandamento, trovammo in una stazione un sacco di patate: allora fu una cuccagna! Un'altra volta riuscimmo a recuperare un barattolo di marmellata che usammo per condire della cicoria! Pensate che menu!

Ancora meglio andò quel giorno, quando, in una cascina, cucinammo carne di cavallo, per tutti noi che eravamo una quarantina.

Finalmente, all'arrivo degli Americani, fummo caricati sui camion e portati in edifici scolastici per essere rifocillati.

Dopo la permanenza in Polonia, salimmo sulla tradotta per l'Italia.

Ci contarono: in ogni vagone dovevano stare 102 uomini!

In quattro spingevamo dentro i compagni per pigiarli nei vagoni. Quando la porta fu chiusa, la sbarra mi comprimeva terribilmente e portai per quaranta giorni il livido sul ventre.

Finalmente, giunti all'ospedale di Gorizia, fummo visitati, puliti, disinfettati.

Ritornai a casa nella primavera del 1943.

Dopo un mese di licenza, dovetti ripresentarmi in caserma. Fui inviato a Merano, sopra Bolzano dove fui catturato dai Tedeschi e portato in un campo di concentramento. Mi aspettavano ventitré mesi di Germania, con un mestolo di rape alla sera e una fettina di pane ogni giorno.

Alla fine dell'agosto 1945 ritornai definitivamente a casa."

 
Villar San Costanzo, 4 maggio 2002



Giuseppe Belliardi

TESTIMONIANZA del REDUCE Giuseppe BELLIARDI ("nonno Pin") di Villar San Costanzo

"Mi chiamo Giuseppe Belliardi e sono nato il 16/11/1917 a Villar San Costanzo, comune dove risiedo attualmente.

Partii militare il 24/5/1938 e rimasi sotto le armi fino al 1945: sette anni di vita militare, di cui quasi cinque di guerra!

Fui arruolato nel 1° Reggimento Alpini, Battaglione Ceva, e nel 1939 inviato sul confine con la Francia, sopra Tenda, dove costruimmo tante strade militari.

Nel 1940 dovetti partire per il fronte Greco-Albanese e Jugoslavo, dove iniziai a conoscere, insieme ai miei compagni, il tormento del freddo e la continua minaccia del congelamento.

Il 7 luglio 1942 fu la volta della Russia.

Partimmo da Mondovì, con i muli, sulla tradotta. Dopo quindici giorni, scendemmo ad Arnautovo. Di lì a piedi attraversammo la steppa, sotto un caldo soffocante e la polvere, fino a Rossosch e poi Arkangeskoje, dove c'era il deposito delle mine.

Il mio incarico era quello di portare le mine e i viveri, due o tre volte la settimana, fin sul Don, per rifornire i Battaglioni là schierati. Il percorso era di circa 15 Km. Per il trasporto utilizzavamo i cavalli e le slitte. Io avevo un bel cavallo bianco. Quando ritornavo ad Arkangeskoje, avevo le mani intirizzite nei guanti e non riuscivo più a sciogliere le briglie, ma una ragazza russa mi aspettava e mi aiutava sempre.

I Russi erano brava gente. Nei villaggi c'erano i vecchi, le donne e i bambini. Gli uomini erano al fronte.

Italiani e Russi: in realtà non ci comportavamo da nemici, ma ci aiutavamo a vicenda, dando o ricevendo, a seconda delle necessità. Noi all'andata regalammo le nostre gallette e loro ci offrirono, soprattutto durante i patimenti della ritirata, latte caldo e miele e, cosa di vitale importanza, l'ospitalità nelle isbe.

Il Sindaco di Arkangeskoje mi invitò perfino a nozze del figlio. Come regalo di nozze portai mezzo sacco di riso, così il menu del pranzo nuziale fu riso al latte, riso con la conserva, maialino al forno (è una loro specialità) e torta di riso.

Da parte mia cercavo di fare tutto il possibile per aiutare quella povera gente. Dal momento che avevo fatto il corso per infermieri, mi prestavo per le iniezioni e mi procuravo, tramite l'ospedale da campo, i farmaci d'emergenza.

Grazie alle iniezioni, riuscii a salvare la vita di una donna, però, recatomi nella sua isba per farle l'ultima puntura, mi trovai davanti tre uomini in borghese, armati fino ai denti: erano partigiani russi. Io, che ero disarmato, ebbi un soprassalto, ma uno di loro si fece avanti e mi disse di non avere paura. Era il capo del partigiani russi ed era venuto lì ad aspettarmi per ringraziarmi: quella donna era sua madre.

Mi promise pure aiuto, un nascondiglio se fosse stato necessario o un trattamento speciale in caso di prigionia.

Come potete ben capire, neppure i partigiani russi fecero del male a me e ai miei uomini: ero caporale maggiore di una squadra di 48 Alpini, aggregati al 32° Battaglione Guastatori.

Verso la metà del gennaio '43, si capì che qualcosa di grave stava per accadere. La Divisione Cuneense aveva l'ordine di puntare su Valoujki, dove avrebbe trovato rinforzi tedeschi (così si diceva, ma i rinforzi non si trovarono mai).1 Noi, nel disordine della prima ritirata, ci accodammo alla Tridentina, che puntava su Nikolajewka.

Sul campanile della chiesa di Nikolajewka i partigiani russi avevano appostato due mitragliatrici e facevano fuoco, man mano che vedevano le truppe avvicinarsi.

Essendo giunti all'imbrunire in prossimità del villaggio, ebbi l'ordine dal Generale Reverberi, Generale della Tridentina, di andare a perlustrare se le mitragliatrici fossero ancora in funzione.

Accettai coraggiosamente. Con gli sci ai piedi (avevo fatto il corso per sciatori e sciavo con sicurezza), tenendomi al riparo della riva, riuscii a perlustrare la zona e a constatare che le mitragliatrici erano state disarmate dagli Alpini che ci avevano preceduti.

Ritornai al Comando per riferire.

Allora decidemmo di attaccare. Ci lanciammo verso il villaggio con la furia di un branco di belve, brandendo le armi e, chi non le aveva, i tridenti, i bastoni o le forche. Sorpresi dalla nostra furia animalesca, i partigiani del villaggio scapparono e noi potemmo entrare in paese per riscaldarci nelle case, rifocillarci un po' e concederci qualche ora di sonno.

Avevamo già superato tanti ostacoli, attacchi, battaglie ed ora eravamo usciti dalla sacca, ma il cammino della ritirata era ancora lungo.

Avevo capito che era assolutamente necessario partire presto al mattino, perché i partigiani a quell'ora dormivano ancora. Intanto dei 48 uomini della mia squadra, eravamo rimasti in due: io e un caro compagno di Carrù, Bernardo Bailo.

Facemmo insieme tutta la ritirata. Un giorno, avendo mangiato dei cetrioli, mi sentii molto male. Un malessere generale mi impediva di proseguire. Allo stremo delle forze, cedetti alla tentazione di fermarmi lungo la pista, dove giacevano tanti compagni catturati dalla "morte bianca". Bernardo mi supplicò di farmi forza, ma io non ce la facevo e allora lo esortai con queste parole:

-Tu vai, lasciami qui e, se tornerai in Patria, promettimi di andare dai miei e di dire loro che sono morto con rassegnazione.

Il compagno mi lasciò, ma di tanto in tanto si voltava indietro a guardarmi. Anch'io lo seguivo con lo sguardo, quando era ormai lontano.

Allora mi venne in mente di dire almeno due preghiere prima di morire. Recitai con fede tre Ave Maria ed invocai il nome di Santa Maria Delibera e di San Costanzo. Un tremito mi percorse dai piedi fino alla testa ed un'inspiegabile energia animò le mie membra. Mi alzai e con la mano feci cenno al mio compagno di aspettarmi. Quasi di corsa lo raggiunsi e chiedemmo ospitalità al primo villaggio, dove una donna ci offrì latte caldo e miele.

Io sono credente e per me la fede è importante; riguardo a questo fatto lascio a voi giudicare.

Vi ricordate del mio cavallo bianco? Ebbene un mattino non riuscì più a rizzarsi in piedi sulle zampe posteriori: puntava le anteriori, ma si lasciava cadere da quelle dietro.

Che fare? Noi avevamo assoluto bisogno di un cavallo per proseguire. Era l'una dopo mezzanotte.

Adocchiammo tre cavalli tedeschi legati con la cavezza alle sbarre di una finestra e ben riparati dal telo.

Con rapida manovra, tagliai la corda al primo e lo spronai a partire.

Il cavallo lanciò un nitrito e un Tedesco, poco dopo, saltò fuori dall'isba, sparò a più riprese, ma non riuscì a colpirci perché il mio compagno ed io, distesi sulla slitta, e col cavallo ormai al galoppo, non sentimmo altro che il sibilo delle pallottole.

Come vedete, ci si doveva aggiustare, per forza!

Vi racconto ancora come facevo ad acchiappare le galline. Lanciavo qualche chicco sull'aia e la gallina accorreva a beccare. Poi lanciavo altri chicchi ancora, sempre più vicino, sempre più vicino e la gallina…confidando nella generosità dell'ignoto passante, mi si avvicinava sempre più, finché ZAC,…la acchiappavo!

Passarono i giorni di marcia e finalmente raggiungemmo Gomel. Da Gomel a Budapest viaggiammo in treno, da Budapest a Gorizia, per la contumacia, ancora in treno.

Arrivai a casa il 25 aprile '43, ma mi aspettava ancora il lager in Germania, dopo l'8 settembre."

Villar San Costanzo, 23 aprile 2002



Giovanni Rinaudo

TESTIMONIANZA del REDUCE Giovanni RINAUDO ("Gianin Cola") di Villar San Costanzo

"Il 1° agosto 1942, mentre ero militare nell'Artiglieria Alpina a Mondovì, ricevetti, come molti miei commilitoni, l'ordine di partire per il fronte russo.
Marciammo a piedi l'intera notte, dalla caserma di Mondovì-Carassone, verso la stazione di Fossano.
Il viaggio in treno durò diciassette giorni e diciassette notti.
Sul treno merci eravamo 380 artiglieri con 320 muli al seguito.
Il treno faceva una sola fermata al giorno, utile per dar da bere ai muli e rifocillare un po' noi.
Il nostro rancio in treno consisteva in una porzione di riso, una galletta divisa a metà ed una scatoletta di carne da dividere in due.
La nostra operazione avrebbe dovuto compiersi sul Caucaso, ma un contrordine ci destinò sul Don. Giunti, quindi, al termine della linea ferroviaria, proseguimmo la marcia verso Est per venti giorni, a piedi.
Pioveva quasi ogni giorno, la temperatura era abbastanza mite, ma il clima non era dei migliori a causa dell'umidità.
Il rancio era sempre scarso.
I campi avevano le messi falciate, a terra, e le patate da raccogliere: evidentemente i contadini, sorpresi dall'avanzata del nemico, non avevano fatto in tempo ad ultimare i lavori.
Giungemmo a 500 metri dal Don; era il settembre 1942. Il fiume Don, da quella distanza ci sembrava un mare, ma già verso la metà di ottobre iniziò a gelare e noi vedevamo una lunga striscia di lucido.
Costruimmo il nostro bunker; lo costruimmo bene. Dentro stavamo in undici. Il nostro posto letto era sul tipo di un letto a castello, con giaciglio di paglia.
Sì…pativamo la fame; raccoglievamo le patate nei campi (era rubare? Lo facevamo per necessità, per non morire di fame) ed imparammo a far scoppiare sul fuoco i chicchi di meliga (voi oggi li chiamate pop-corn!).
Facevamo i turni per il servizio di guardia.
Alla sera, nel bunker, pregavamo il rosario, noi soldati, tutti assieme. La preghiera ci dava conforto e ci faceva sentire vicini ai nostri cari.
Scrivevo ai miei familiari e ricevevo lettere da loro. Mia sorella Caterina, che allora aveva 12 anni, era lei l'incaricata a scrivere. Scriveva le lettere che mamma le dettava e aggiungeva qualcosa di suo, del tipo: "mamma va a pregare a Santa Maria, piange tutto il giorno".
Intanto il freddo aumentava ed a Natale il termometro segnava -32, -33.
I Russi avevano aspettato il momento giusto per sfondare la nostra linea: passarono sul Don gelato e sfondarono.
La Tridentina riuscì ad aprirsi un varco; noi della Cuneense rimanemmo in gran parte intrappolati, sono una minima parte di noi riuscì ad unirsi alla via d'uscita della Tridentina.
Oramai il 50% dei nostri erano congelati.
A inizio gennaio del '43 pensavo anch'io di perdere le gambe. Mi accorsi che non le comandavo più. Mi portarono in una stalla, protetta all'esterno da un muro di letame. Mentre ormai mi aspettava la fine, avvenne ciò che il caso o le preghiere di mia madre permisero: fui caricato su un camion e, dopo 200 Km di strada, mi posarono in un ospedale da campo, dove rimasi per sei giorni.
Di lì, tramite ferrovia, caricato su un carro merci, raggiunsi, insieme ad altri malati, l'ospedale di Kiev. Ma quest'ospedale era pieno e fummo rifiutati.
Cosa fare? Proseguimmo in treno merci verso l'Ungheria. L'ospedale di Budapest era una struttura grandiosa, in riva al Danubio. Dalle grandi vetrate, vedevamo scorrere l'acqua del grande fiume.
Lì si stava bene. Io riacquistavo giorno dopo giorno le forze e le gambe davano ancora segni di vita. Tutto il personale dell'ospedale era gentile e le crocerossine italiane ci trattavano molto bene e facevano quasi preferenza per noi militari italiani.
Il 31 gennaio raggiungevo il grande ospedale "Gianellini" di Udine, dove recuperavo definitivamente l'uso degli arti inferiori. Mi fecero la riabilitazione, iniezioni e massaggi.
A fine aprile '43 potei finalmente rientrare a casa e riabbracciare la mamma e tutti i miei cari.
La licenza premio, però, era di soli trenta giorni, al termine della quale, quando fui visitato, il Capitano Bertinetti mi dichiarò "ragazzo abile"!
Disperazione! Dovevo di nuovo partire? Verso il Brennero?
Per fortuna il Maggiore Tragella, della caserma di Cuneo, fu buono con me e mi chiese se volessi fare l'attendente al mulo o al Maggiore.
Fu così che feci l'attendente al Maggiore, fino a tutto agosto '43 (un po' prima dell'armistizio) a Cuneo, in casa Tragella, Via XX settembre n° 10. Dopo questa data, il Maggiore lasciò segretamente Cuneo (fuggì forse a Milano), per paura dei Nazifascisti ed io rimasi nascosto a casa mia, fino alla fine della guerra."

Villar San Costanzo, 25 gennaio 2002



Michele Marino

INTERVISTA al REDUCE Michele MARINO ("nonno Michele") di Dronero

Di che classe è?
- Sono nato il 4 agosto 1922 nella frazione Monastero di Dronero.

In che anno è stato chiamato alle armi?
- Sono stato chiamato alle armi il 15 gennaio 1942 ed affidato alla 2^ Compagnia di Sanità, aggregato al 38° Reggimento di Fanteria.

In quale caserma era in servizio, quando ricevette l'ordine di partire per la Russia?
- Quando mi hanno chiamato per andare in Russia mi trovavo nella 2^ Compagnia Sanità di Savigliano e mi hanno assegnato al 24° Ospedale da Campo.

Come eravate attrezzati per la partenza verso la Russia?
- Al momento della partenza non eravamo assolutamente attrezzati per affrontare il vero nemico di quella Campagna, cioè il "freddo". Indossavamo un vestiario militare adatto al clima dei nostri paesi, non sicuramente al clima della Russia. Mi ricordo in particolare degli scarponi rivestiti di cartone per proteggerci dal freddo, che, tuttavia, entrava nei piedi fino a congelarli.

Come ha reagito alla notizia della partenza per la Russia?
- Quando mi hanno detto che dovevo partire per la Russia non ho reagito molto bene, ma sapevo che anche mio fratello partiva per questa Campagna, anche se non era nel mio reparto e questo mi rallegrava un po' perché c'era una parte della mia famiglia.

In quale data partì e come si svolse il viaggio?
- La data esatta della partenza per la Russia è stata il 10 agosto 1942.
Io ed i miei compagni siamo partiti con la tradotta (una specie di treno) dalla stazione di Savigliano ed abbiamo raggiunto Kiev (Ucraina) dopo molti giorni (non mi ricordo esattamente quanti). A questo punto, abbiamo proseguito per Rossosch con un camion ed infine a piedi fino alla frazione di Olicovacta, dove abbiamo installato l'Ospedale da campo.
E' stato un viaggio estenuante e faticoso soprattutto per la stanchezza ed il caldo (era agosto).

Quali furono i suoi incarichi sul posto?
- Durante la Campagna di Russia mi fu affidato il ruolo d'infermiere, anche se non ho mai studiato, né fatto nulla per questa specializzazione. Ma sul posto ho imparato subito tante cose.
Ho trascorso tutto l'inverno in Russia, dall'agosto del 1942 fino a marzo 1943, ed io e i miei compagni abbiamo convissuto con temperature che andavano dai + 40° C d'agosto, ai - 40° C durante l'inverno.

Ci racconta qualche episodio che ha vissuto in Russia?
L'episodio che mi ricordo in modo particolare è stato quando, per l'ultima volta, ho visto mio fratello.
Durante la ritirata dalla Russia, eravamo ormai sfiniti e stravolti. Non posso, e né voglio, descrivere come eravamo, anche perché forse non si può descrivere con le parole.
Mio fratello, che ormai non ce la faceva più, decise con un gruppo di amici di rifugiarsi in una baracca perché non riusciva a proseguire, un po' perché i piedi gli congelavano e perché, soprattutto, non aveva più la forza fisica (aveva già partecipato alla Campagna di Addis Abeba in Etiopia e combattuto in Francia).
Io lo pregai di resistere e di continuare con noi. Ma davvero non ce la faceva più ad andare avanti.
Mi sentii impotente perché non avevamo tempo per discutere e le decisioni si dovevano prendere immediatamente. Insistetti un po', ma lui mi disse di proseguire, visto che io ero più giovane di lui di sei anni e che ce l'avrei fatta, dato che ero ancora in buona salute.
Così ci lasciammo.
Dopo poche ore, venni a sapere che i Russi li avevano catturati…

Quando è ritornato e con quali mezzi?
-Sono ritornato dalla Russia con la tradotta, dalla stazione di Gomel in Russia, fino al Tarvisio in Italia, dove siamo arrivati il 23 marzo 1943. Lì ci hanno messo in contumacia per alcuni giorni.

Come è ritornato: ferito, malato o in salute?
- Fortunatamente sono ritornato in buona salute.

Come vive il ricordo di questa esperienza?
- E' stata un'esperienza che ha lasciato il segno a tutti quelli che l'hanno vissuta ed io, in particolare, non amo parlare di questo argomento né con i miei parenti, né con i miei amici.
Ho dato a Mattia, mio nipote e vostro compagno di classe, alcuni documenti che ricordano questo periodo e che ho conservato per tutti questi anni. Si tratta di una cartolina militare che ho scritto a mia madre, quando mi trovavo a Varsavia, nel viaggio di andata, ed un manifesto che il Generale d'Armata consegnava a tutti i superstiti della Campagna.1

Dronero, 11 dicembre 2001

1 Questi documenti sono riportati nel 2° capitolo.



Riflessioni Maestra

Questa ricerca sulla Campagna di Russia, condotta con gli alunni della classe V nell'anno scolastico 2001/2002, è nata dalla felice combinazione di alcuni eventi: l'iniziativa del Comune di Villar San Costanzo di dedicare, nell'ambito della nuova toponomastica, alcune vie cittadine al ricordo dei suoi giovani morti in Russia; la presenza sul territorio di reduci ancora viventi, testimoni di quella tragica guerra; l'approssimarsi del sessantesimo anniversario della ritirata; la proposta della Direttrice didattica di cooperare, come scuola, al progetto di "memoria", in atto sul territorio comunale.
Il lavoro, avviato nel mese di dicembre ‘01, si è arricchito man mano di nuovi contenuti. Incontri, lettere, racconti si sono avvicendati con un ritmo calmo ed appassionante ed hanno finito, giorno dopo giorno, col coinvolgere la classe in una straordinaria avventura.
La tensione motivazionale era così alta, che, come insegnante, ho dovuto semplicemente orientare le energie, per organizzare il lavoro in modo graduale e organico.
A seconda della natura e del grado di difficoltà dell'argomento, ho proposto via via agli alunni di lavorare a piccoli gruppi (modello di organizzazione molto ricercato e amato dai bambini), oppure individualmente, o ancora ho condotto il lavoro in modo collettivo, su tutta la classe.
L'incontro personale con i reduci, l'ascolto delle loro testimonianze, la lettura di diari e lettere, il contributo spontaneo e generoso di tante persone per la raccolta dei reperti hanno dato all'intera ricerca un'impronta di grande calore e ricchezza umana.
E… i reduci testimoni, è giusto dirlo, sono diventati gli eroi della nostra classe! I loro racconti, così sapientemente modellati sullo stile della narrazione da nonno a nipotino, hanno saputo "raccontare" il dolore e la fatica, ma anche la speranza e l'attaccamento alla vita, suscitando emozioni, entusiasmi, e, assai spesso… silenzi, carichi di rispetto.
Questo testo riporta, nei primi due capitoli, le testimonianze e i reperti della guerra che siamo riusciti a raccogliere tra la popolazione di Villar San Costanzo (le citazioni delle testimonianze, registrate e/o filmate, sono fedeli e sono state sottoposte alla revisione dei diretti testimoni interessati); il terzo capitolo è dedicato al "giorno della memoria" del 27 gennaio 2002, così come lo hanno vissuto i bambini. Il quarto capitolo, infine, raccoglie le più significative produzioni scritte, svolte in classe dagli alunni, secondo le modalità sopraindicate.
Per perseguire l'intento anche didattico di questo testo, ho indicato, per i lavori del quarto capitolo, l'obiettivo prefissato ed ho allegato, in appendice, la programmazione dell'unità didattica e le essenziali linee metodologiche che ho adottato.
Questo piccolo libro è, quindi, il frutto di un intero quadrimestre di lavoro che ha visto il coinvolgimento di più discipline, dalla storia, alla lingua italiana, alla geografia, all'informatica.
Spero che quest'esperienza abbia contribuito alla formazione umana e culturale degli alunni; da parte mia ho la gioia di aver loro consegnato la memoria di un passato che è giusto non venga dimenticato.
La maestra 
Bruna Demaria

Prefazione Direttrice

"Dunque fra poco senza parole la bocca,
e questa sera saremo in fondo alla valle
dove le feste han spento tutte le lampade.
Dove una folla tace e gli amici non riconoscono"
Franco Fortini

Non é facile "fare storia" nella scuola elementare per almeno due motivi:
da una parte il pensare per concetti che appare strumento indispensabile per la comunicazione; dall'altra il modo con cui il bambino guarda al passato. Per questo il lavoro interdisciplinare sulla Campagna di Russia sessant'anni dopo , appare come strumento di lavoro, ancor prima che prodotto di una ricerca degli alunni della classe quinta.
Strumento di lavoro semplice e trasparente nella sua trama.
Nel lontano 1974 una ricerca coordinata dalla prof. Maria Corda Costa, condotta dalla II Cattedra di Pedagogia della Facoltà di Lettere e Filosofia di Roma, evidenziava la difficoltà di comprensione dei termini e dei concetti storici : "Le difficoltà del lavoro didattico si giustificano alla luce dell'enorme importanza che ha nella nostra cultura la comprensione ed il possesso della lingua scritta: la corretta comprensione di un brano storico (e ,quindi, ad esempio, per traslazione , di un brano politico di giornale ecc.) é uno degli strumenti indispensabili per un cittadino che non voglia svolgere un ruolo completamente passivo all'interno della società" (L.Genovese, Comprensione dei termini e concetti storici, in "Scuola e città", n.3/1974)
La lettura di varie fonti, la testimonianza orale, la fruizione di interventi, la produzione di articoli sono strumenti efficaci per comprendere, per decentrare il proprio punto di vista, per farsi "altri" e per reinventare strumenti di ricerca.
Con molta cautela e con altrettanta semplicità , gli alunni di quinta di Villar San Costanzo sono stati avvicinati ad una definizione di storia come "scienza degli uomini nel tempo" (cfr. M.Bloch) , "storia come scienza del passato a condizione che vi sia una ricostruzione incessantemente rimessa in causa" (cfr. Le Goff), esercizio di pensiero critico prima ancora, quindi, di doverosa "memoria", che, pure, é presente nell'intento dei bambini e che é stato ,addirittura, il motore della ricerca.
Questa memoria priva di enfasi diventa storia nell'elaborazione dei bambini, storia vicina anche per le notizie di guerra che si susseguono alla televisione e sui giornali, memoria senza la quale parlare di pace, di solidarietà, di ideali di libertà, di giustizia parrebbero vuoti esercizi di retorica, belle parole che non costano nulla.

La Direttrice Didattica
Eugenia Acconci

Presentazione del Sindaco

Questo lavoro é nato da un progetto didattico sull'insegnamento della storia portato avanti dai docenti della classe quinta della Scuola Elementare di Villar San Costanzo. L'attività ha impegnato i bambini per alcuni mesi ed ha visto il coinvolgimento attivo dei nonni e delle nonne, ma anche di buona parte della popolazione che della guerra ha un ricordo diretto o indiretto.
E' nato insieme con la decisione del Comune di inaugurare in modo ufficiale le strade dedicate ai Caduti della II Guerra Mondiale e questo ha permesso un lavoro comune molto interessante.
Spesso ci si chiede se la capilarizzazione delle sedi scolastiche sul territorio abbia ancora un senso.
Se si guardasse alla scuola solo in termini di erogazione di servizio (la scuola elementare di Villar ha 73 alunni), se si valutassero soltanto costi e benefici in modo prettamente economico , certamente i costi potrebbero sembrare elevati e si potrebbe pensare ad operazioni campanilistiche.
In realtà la scuola é sì un servizio ma anche qualcosa di più e di diverso . Su un territorio, in un piccolo Comune, la scuola é il luogo dove la memoria si concretizza, dove si trasmettono anche i valori della Comunità , dove ci si può incontrare e costruire concretamente il proprio sapere.
Per Villar la scuola é soprattutto questo, quindi si guarda con rispetto ed interesse alle attività dei bambini.
Consegnare loro la memoria di un passato che tanto ci ha segnati é doveroso, ma é, soprattutto, dare fiducia ai bambini, alle loro capacità.
Infatti il lavoro che é presentato in queste pagine é prezioso sia per i documenti raccolti, sia per le riflessioni degli alunni, sia per il metodo di lavoro, sia per l'impegno profuso anche nella sistemazione grafica che testimonia una capacità di usare i mezzi a disposizione nel modo più proficuo.
Un grazie, quindi, a nome di tutta la popolazione di Villar, ai bambini e alle loro insegnanti.

Il Sindaco
Giovanni Biglione

Villar San Costanzo, 30 maggio 2002

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